LA COMUNICAZIONE (E L'IMMAGINE) CORPORATE NEL 2016



Una volta non c'era Facebook, non c'era Twitter, non c'era Google e internet era un pelo diverso. Eppure le aziende esistevano già e i regolamenti aziendali pure. La piccola differenza è che se la vita di una company in qualche modo poteva finire sotto i riflettori (dell'epoca) lo stesso non valeva per gli affari della gente comune. Che oggi invece può sharare con il mondo qualsiasi cosa.
La prima cacca del pargolo appeno venuto al mondo, il pranzo, la cena o il close-up dell'utero: nessuna differenza. Una foto e via. E lo stesso dicasi per un parere, ovviamente. Dalle citazioni dei filosofi greci al quotone neonazista, basta un attimo. 2016, mondo reale, funziona così. E le aziende che una volta dovevano limitarsi a regolare i comportamenti di chi rappresentava l'immagine corporate (la dirigenza, il PR Manager o l'agenzia incaricata e tutti i profili in qualche modo pubblici) oggi si trovano a dover regolare anche il comportamento di tutti gli altri: dall'impiegato più scalcinato al manager stesso, fino a poco prima invisibile. Magari il primo può esprimere il suo gradimento per quel partito invece dell'altro, il secondo farsi un selfie coca e mignotte ma sposta poco: il problema, nel caso, si accende e si alimenta con qualche click e ricade sul brand. Non c'è niente di nuovo, se non che la cassa di risonanza di oggi non è sicuramente come quella di ieri. E allora cosa? Ci si stupisce se un'azienda manda a casa quella che posa con il culo di fuori su Instagram e magari è il Product Manager di una roba per bambini. Intendiamoci, io sono totalmente pro per alcune cose e completamente contrario ad altre e ogni caso va preso con le pinze perchè un bel culo al brand, potrebbe pure fare bene così come un cosplayer più o meno ridicolmente agghindato o come qualsiasi altra cosa: dipende dall'azienda. La questione è vedere gente stupita del fatto che esista, oggi, questo tipo di visibilità e che, addirittura, un comportamento non in linea con le policy (stabilite a monte, ognuno la sua) possa addirittura essere oggetto di risoluzione contrattuale.


La comunicazione come molti altri mestieri poco tangibili, incredibilmente, ha delle regole. Quella corporate poi, ne ha ancora di più e spesso più stringenti. Ho gestito la comunicazione mondo di Leader e di tutte le sue label ormai 10 anni fa e, per esempio, alcune parole nelle press release erano bandite, in determinati paesi erano utilizzabili e in altri no e via dicendo. Così come accadeva per quasi tutti i publisher per cui ho lavorato, se torniamo al discorso videogiochi. Ma esistono anche regole nel parlare, cose da dire, cose da non dire, concetti proibiti, risposte predeterminate a domande di un certo tipo. Si fanno dei lunghi brief prima di un evento pubblico, per determinare la linea che poi lo sviluppatore, il Producer o chiunque avrà a che fare con il giornalista, dovrà dire. E non decidono loro, cosa ci sarà da dire. Lo decide l'azienda in base a piani di altro tipo. E funziona così ovunque, non è una roba del gaming per cui ci sia poi da stupirsi (ma considerato che molti hanno scoperto il press tour da una settimana...). Lavorare sull'immagine corporate poi, specialmente nel mondo dello sviluppo e in generale in tutti i mercati crowded, è fondamentale, mentre in particolare da noi è sempre birra e salsiccia (così chiamo io un certo tipo di approccio) che è di base posizionamento adatto a gruppi di amatori per l'appunto e non a chi dovrebbe sembrare una company. O almeno provarci. Diciamo che poi la visibilità ottenuta (dove, come, quando) è per fortuna la logica conseguenza dei ragionamenti di cui sopra, così come la percezione del mondo verso persone e brand stesso. E i livelli differenti (perchè parliamo proprio di campi di gioco diversi) sono evidenti alla ragione. E al mondo, via social, nel 2016.

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